Storico latino.
Intorno alla sua nascita e alla sua esistenza permangono numerosi dubbi: si
ignora se il prenome fosse Gaio o Publio (la seconda ipotesi è oggi
più accreditata), né si conoscono i limiti esatti della sua vita
(approssimativamente stimati fra il 55 e il 120). Parimenti incerti sono sia il
luogo di nascita sia la provenienza familiare: delle varie possibilità
desumibili dalla tradizione antica, la più attendibile sembra quella di
una sua origine provinciale, dalla regione celtica della Gallia Narbonense. In
ogni caso,
T. crebbe in un ambiente familiare ricco e influente: il padre
apparteneva all'ordine equestre ed egli poté ricevere a Roma
un'educazione letteraria completa, alla scuola del grande maestro di retorica
Quintiliano; qui conobbe e si legò d'amicizia con Plinio il Giovane, il
quale in alcuni passi delle sue lettere ne ricorda la personalità e il
carattere. Terminati gli studi,
T. intraprese la carriera di avvocato,
raggiungendo molto presto la notorietà; contemporaneamente iniziò
la vita politica con il sostegno del conquistatore della Britannia, il console
Giulio Agricola, la cui figlia aveva sposato nel 78. Rivestì infatti la
questura sotto il principato di Vespasiano; fu quindi edile o tribuno sotto Tito
e raggiunse la pretura nell'88, durante l'impero di Domiziano. Dall'89 al 93
ricoprì l'incarico di legato o di propretore in una regione nel
Nord-Ovest dell'Impero (la Gallia Belgica o la Germania): in quell'occasione
ebbe modo di approfondire la conoscenza dei Germani, il fiero popolo cui
dedicò poi una monografia intitolata appunto
Germania. Nel 93,
l'improvvisa morte del suocero Agricola lo colse ancora in missione, e non
poté pronunziarne l'orazione funebre; nel medesimo anno 93 riuscì
tuttavia a rientrare a Roma, dove, durante il periodo più cupo del regime
di Domiziano (dal 93 al 96), si astenne volutamente da ogni incarico
politico-militare, mantenendo un atteggiamento riservato, senza tuttavia opporsi
apertamente all'imperatore. Nel 97, dopo la morte del "tiranno" e
l'ascesa al principato di Nerva, riprese l'attività politica e fu eletto
console per quello stesso anno, in sostituzione del defunto Virginio Rufo, del
quale pronunciò l'elogio in occasione dei funerali. All'anno 98 risale il
suo esordio come scrittore, con una biografia encomiastica del suocero, il
De
vita Iulii Agricolae (o più semplicemente,
Agricola)
pubblicata, come egli stesso scrisse, dopo 15 anni di silenzio impostigli dal
regime di terrore instaurato da Domiziano: si tratta di una breve monografia
dall'evidente intento celebrativo, nella quale abbondano le critiche e le accuse
rivolte a Domiziano, imputato fra l'altro dell'improvvisa fine della carriera
militare di Agricola. L'opera, che costituisce una prima chiara testimonianza
sia della visione politica di
T., orientata a favore dell'aristocrazia
senatoria, sia della sua inclinazione per la storiografia, è incentrata
soprattutto sulla descrizione delle imprese militari del suocero, culminate
nella conquista della Britannia. Di rilievo sono pure le parti relative alla
presentazione dei Britanni, che rivelano l'interesse etnografico dell'autore e
la sua attenzione per i popoli dell'Occidente che opponevano una vigorosa
resistenza alla conquista romana. Tuttavia, più di tutto merita
considerazione il sottile tentativo operato da
T. di motivare agli occhi
dei concittadini l'azione del suocero (che aveva raggiunto il culmine della
carriera proprio sotto l'esecrato Domiziano) e, più indirettamente, di
giustificare il suo stesso atteggiamento di cautela in quel periodo. Tale
tentativo, generato forse dalla persistente fama di eroismo degli individui che
si erano apertamente ribellati al tiranno pagando con la vita la loro scelta di
libertà, si concretizza nella critica del "bel gesto" inutile
alla patria, e nell'opposta esaltazione delle virtù della prudenza e
della condotta cauta ma utile alla città. Infatti,
T. afferma che
Roma, pur priva della libertà, è viva e l'uomo virtuoso deve
servire Roma, non il tiranno. All'
Agricola seguì, a distanza di
pochi mesi, la pubblicazione della seconda monografia di
T.,
il
De origine et situ Germanorum, più nota come
Germania:
divisa in due parti, l'opera descrive dapprima la regione e i suoi prodotti del
suolo, si sofferma quindi sull'origine e sui costumi comuni dei Germani
(analizzandone l'organizzazione militare, religiosa, politica e sociale,
nonché la vita privata) ed esamina infine particolareggiatamente i
caratteri e le usanze delle singole popolazioni. Al di là del preminente
taglio etnico-geografico, questo trattato risulta di grande interesse non solo
per la quantità di informazioni accurate sui Germani, ma anche per la
spiccata vena etico-politica che lo percorre. Infatti, nell'opinione di
T., alla civiltà incorrotta e moralmente "sana" dei
popoli germanici, le cui usanze egli analizza attraverso le categorie
dell'austera mentalità romana più antica (il cosiddetto
mos
maiorum), si contrappongono la debolezza e la corruzione della
società romana dei suoi tempi. Così, dalla raffigurazione di quei
popoli liberi, che nonostante le numerose campagne militari i Romani non erano
ancora riusciti ad assoggettare, emerge nella prosa di
T. il ritratto in
negativo della decadenza morale del principato; inoltre, la consapevolezza della
gravità del problema degli indomabili Germani colora le pagine dello
storico di una tonalità fosca e, come gli eventi dei secoli successivi
dimostrarono, quasi profetica. Nel 100, a distanza di due anni dall'uscita della
Germania,
T. riscosse un grande successo in un processo politico,
difendendo, insieme all'amico Plinio il Giovane, i provinciali d'Africa contro
il corrotto proconsole Mario Prisco: la tradizione ricorda la grande fama che ne
venne allo storico, lodato per l'eloquenza solenne e avvincente della sua
perorazione. L'ultima e più importante tappa a noi nota della carriera
politica di
T. risale al 112-113, anni in cui rivestì la
prestigiosa carica di proconsole d'Asia; dopo di ciò mancano dati
ufficiali, ed è probabile che nell'ultima parte della sua vita, dal 104
al 120, egli si dedicasse quasi esclusivamente alla stesura delle due opere
storiche più importanti, le
Historiae (
Storie) e gli
Ab
excessu Divi Augusti libri o più comunemente
Annales
(
Annali). Entrambe sono pervenute incomplete; da una testimonianza
antica si sa che erano complessivamente in 30 libri, suddivisi in 14 (o 12)
libri di
Storie e 16 (o 18) libri di
Annali. Le
Storie,
pubblicate intorno al 109, narravano gli avvenimenti storici dal 69 (anno
dell'anarchia seguita alla morte di Nerone) al 96, anno della scomparsa di
Domiziano: ne sono pervenuti i libri I-V, con un'ampia lacuna finale; gli ultimi
avvenimenti descritti nella parte giunta fino a noi sono l'assedio di
Gerusalemme da parte di Tito e la rivolta di Giulio Civile in Gallia. Tema
centrale dell'opera è la riflessione in chiave storico-politica
sull'Impero, concepito come un vero e proprio organismo del quale
T.
cerca di individuare i meccanismi e le forze che ne consentono il funzionamento
e il sostentamento, al fine di spiegare le cause delle trasformazioni subite dal
principato, in sé e nei suoi mutevoli rapporti con gli altri componenti
dello Stato, in particolare con il Senato. E proprio nella corretta relazione,
nell'equilibrio fra l'autorità del principe e la libertà di azione
e di pensiero dei senatori lo storico individua la forma realizzabile della
libertas, contrapposta all'odiosa tirannide. Con chiarezza lo storico
sottolinea che tale equilibrio non è sancito per legge, ma dipende
unicamente dalla personalità del principe, nonché dalla
capacità della classe senatoria di non piegarsi supinamente
all'adulazione e al servilismo. L'interesse per questo tema (la contrapposizione
fra l'egoismo del principe e la paura dei senatori, analizzati con penetrante
acume, anche se in modo non sempre obiettivo) porta
T. ad accentuare
nella sua visione i problemi morali e psicologici più che i meri
avvenimenti storici; ne consegue una forte caratterizzazione drammatica dei
protagonisti, descritti attraverso un linguaggio teso e quasi tragico, ricco di
luci e ombre, di artifici retorici e linguistici. Tale
"tragicità" della narrazione è favorita inoltre dal
pessimismo dell'autore, per il quale il fato e gli dei non svolgono alcun ruolo
nel mondo, o meglio non sono che simboli del limite posto all'azione umana, al
di là di ogni fede o credulità degli uomini. Un'analoga tensione
morale e un ancor più acuto desiderio di individuare le cause profonde
dei fatti storici contraddistinguono le pagine degli
Annali, l'ultima
opera di
T., composta verosimilmente fra il 109 e il 117. Dei 16 (o 18)
libri in cui era divisa sono giunti i libri I-VI (incompleto il V) e XI-XVI,
lacunosi all'inizio e alla fine. Contrariamente al proposito espresso nelle
Storie (laddove
T. manifestava l'intenzione di scrivere le vicende
del principato di Nerva e di Traiano, definito "epoca in cui si può
pensare ciò che si vuole, e dire ciò che si pensa"),
l'autore abbandonò il progetto di occuparsi del periodo storico a lui
contemporaneo per dedicarsi invece a esaminare le origini del principato, dalla
morte di Augusto all'impero di Nerone, ricollegandosi in tal modo con
l'argomento già trattato nelle
Storie. Non è del tutto
certo per quale motivo egli avesse rinunciato al progetto iniziale: è
però verosimile che - nel corso della sua analisi - avesse intuito che la
crisi e la trasformazione del principato non si erano innescate con la morte di
Nerone, ma avevano radici più profonde e risalivano al momento
dell'ascesa al potere di Tiberio, il successore di Augusto. Anche in
quest'opera, come nella precedente, prevale quindi la volontà di indagare
le cause dei mutamenti e degli eventi politici; in particolare, è
sottolineato il mutevole rapporto di forza tra il Senato (custode della
libertà repubblicana) e il principe, rapporto che è fortemente
condizionato dalla personalità di quest'ultimo e che spesso si risolve in
una progressiva perdita d'importanza e di potere dei senatori. Per questo, tema
privilegiato degli
Annali è la descrizione della figura del
princeps, inteso non tanto come carica quanto come singolo individuo, le
cui scelte determinano il destino di Roma e del suo Impero. Non stupiscono
quindi né il taglio psicologico e moralistico della narrazione, né
la tendenza di
T. a dare giudizi di valore sui protagonisti della
politica. Infatti, pur dichiarando di voler procedere nella sua indagine
sine
ira et studio (senza astio né parzialità), per la sua
ideologia filosenatoria e per la sua propensione a interpretare (non a
descrivere) i fatti risulta non di rado arbitrario e poco obiettivo, anche se
sempre lucido e penetrante. Una menzione merita infine il
Dialogus de
oratoribus (Dialogo sugli oratori), redatto probabilmente intorno al 100, la
cui attribuzione a
T. è tuttavia assai dubbia, soprattutto a causa
delle notevoli differenze di stile rispetto agli scritti certamente autentici.
Per descrivere i protagonisti delle sue opere
T. si servì di un
tono alto, tragico, non convenzionale, alieno dalla tradizione
"classica" di Cicerone; per contro, il suo stile rapido, incisivo e
asimmetrico appare debitore della prosa lucida e asciutta di Sallustio, suo
principale modello. Assai originale è il lessico, ricco di termini
pittoreschi ed espressivi, che gli conferiscono un colorito poetico; le sue
descrizioni si condensano in frasi brevi, quasi epigrammatiche, ma in
realtà densissime di significato e talora di difficile resa; la sua prosa
appare nuda e solenne. Ammirato dai contemporanei e da autori della tarda
latinità come Ammiano Marcellino,
T. ebbe invece scarsa fortuna
nel Medioevo; riscoperto durante l'Umanesimo, fu apprezzato come storico nel XVI
sec. e la sua fama crebbe costantemente; nel XVII sec. fiorì una vera e
propria corrente (detta
Tacitismo) di suoi imitatori, che ritenevano gli
Annali un vero e proprio manuale del perfetto uomo di Stato. Infine,
grandissima fama ebbe all'epoca della Rivoluzione francese e durante il
Romanticismo, soprattutto in virtù della sua posizione libertaria e della
sua raffigurazione polemica dei "tiranni" (55 circa - 120
circa).